Caparezza e quella prosopagnosia di cui soffriamo un po’ tutti

Se “il secondo album è sempre il più difficile” l’ultimo è forse il migliore. Parliamo di “Prisoner 709” di Michele Salvemini in arte Caparezza, uscito ormai quasi un anno fa e che ha riempito le nostre radio con “mi fa stare bene” prima e “una chiave” poi e che dato nome, come spesso succede, al suo tour. Ma prima di pensare a giugno, mese in cui il tour riprenderà, è d’obbligo fare un salto indietro fino al 1997 circa.

Quando Caparezza era un’improbabile versione di se stesso e si faceva chiamare Mikimix. Premettendo che oggi con Youtube e i produttori che ci sono in giro farebbe anche successo, all’epoca fu un flop, per l’industria musicale ma soprattutto per egli stesso. E qui veniamo a quella buffa parola scritta nel titolo che molti di noi avranno pronunciato bene solo alla seconda, se non terza, rilettura, ovvero prosopagnosia, che non è soltanto il brano apripista del suo ultimo album ma è soprattutto una malattia.

La malattia di chi ha difficoltà nel riconoscere i volti umani. Quanti di noi si sono visti allo specchio dopo un fiasco o dopo un brutto periodo e non ci siamo più saputi riconoscere? Forse è anche di questo che parla Caparezza in un album intriso di introspezione e malanni, dai problemi fisici dovuti all’acufene, disturbo uditivo di cui il cantante pugliese soffre, alla fatica della sua metamorfosi. In questo modo ci piace pensare che Caparezza si eleva abbandonando le spoglie di semplice cantante diventando un esempio, se vogliamo, di come trasformare i nostri insuccessi in crisalide che ci farà diventare farfalla, arrivando a riempire gli stadi di tutta Italia tra canto, teatro, danza e cori urlanti di un palazzetto sold out che fa da cornice.

Ma questo lo si sapeva già da qualche album a questa parte. Insomma, dopo il grande successo diPrisoner 709” iniziato a novembre 2017 e finito a febbraio 2018 è ora di ripartire con le tappe estive, prima destinazione Lucca Summer Festival il 27 giugno, e magari dopo aver preso coscienza di quello che c’è dietro un lavoro come questo riuscire a percepire tutto ciò con un altro spirito. Perché nella musica c’è sempre almeno una strofa, un brano o addirittura un album intero che sembra parlarci da vicino.

Angelo Federico Di Placido

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